Antonio Paolucci
-estratto dal catalogo
della mostra antologica
di Villa San Lorenzo al Prato
Sesto Fiorentino 1999-
.....Il critico prende l’opera di
Giampiero Poggiali Berlinghieri dislocata attraverso trent’anni ed ecco
accendersi le luci di riferimento, ecco disegnarsi sullo schermo del
mestiere le antinomie, le allusioni, i rispecchiamenti: Brunelleschi e il
Dada, il Pop e il Futurismo, Fontana e il Labirinto, il Romantico e l’Immaginario,
il Sogno e il Gioco, il Cubismo Orfico e Mondrian e Klee e Miro, Magritte
e i fumetti di fantascienza.
Come no? Tutte queste cose – e molte altre
ancora – ci sono nell’opera di Poggiali, cosi come ci sono nel comune
sentire, nella cultura condivisa degli uomini e delle donne dei nostri
giorni. Ma non è questo Poggiali. Non basta la rete dei riferimenti
storici a collocare un artista nel suo tempo e meno che mai basta a
svelarne l’entità.
Bisogna scavare più a fondo se vogliamo
capire perché Poggiali è Poggiali e nessun altro, e come ha fatto lui,
qui e ora, a trasfigurare tutte quelle suggestioni in forme figurative
chiuse, definitive, riconoscibili; forme che sono sufficienti a se stesse,
che hanno in se stesse il loro ordine e il loro splendore.
Non mi piace parlare di un artista in
astratto. Preferisco parlarne avendo sott’occhio le opere. E allora ecco
– a mo’ di esempio – l’Ares in legno dipinto, datato al 1991.
È un guerriero, come il titolo
imperiosamente dichiara, anzi è il totem del guerriero, è l’idea
stessa della guerra. Ma quale guerra? E’ la guerra come antica festa
crudele, è la guerra come «arancia meccanica», ma è anche la guerra
come robot, come gioco infantile, come rimando letterario, come mito.
Quante cose possono venire in mente se si pensa alla guerra! A me, per
esempio, guardando l’Ares di Poggiali, vengono in mente i Trecento
caduti alle Termopili e le guerre stellari, le «Lance» di Velazquez al
Prado e i fratelli Taviani nella «Notte di San Lorenzo», i pupazzi del
Carnevale di Viareggio e i cavalieri di Costantino negli affreschi di
Piero di Arezzo. Mi viene in mente il «dottor Stranamore» e mi vengono
in mente le battaglie di Paolo Uccello dove i cavalli colorati e le
armature girano, nel tempo sospeso, come orologi prospettici.
Con ogni probabilità quando Poggiali ha dato
immagine al suo Ares altre suggestioni altre fantasie lo hanno coinvolto
ma questo non vuol dire. Anzi, questo vuol dire l’unica cosa davvero
importante e cioè che la scultura dipinta di cui ho parlato è davvero un’opera
d’arte. Lo è perché genera in me che guardo, sogni e fantasie,
emozioni, evocazioni, ricordi. Non è forse questo il proprio dell’arte,
la sua riconoscibilità e il suo destino?
Prendiamo altre sculture recenti di Poggiali,
scelte fra quelle che apparvero a Ravenna nel ‘96: l’Angelus Novus, i
Cerambicidi xilofagi, le lumache sovrapposte e l’una nell’altra
incastrate in teorie seriali e divaricate, oppure l’Installazione 1 che
vede bruchi policromi gioiosamente occupare una bianca parete, o ancora l’American
Crane. Sono tutte opere dislocate fra il ‘93 e il ‘96. I materiali
usati sono il legno dipinto, il vetro, il plexiglass. La prima impressione
è di giocattoli elementari che viene voglia di toccare, di manipolare, di
riassemblare. Sono sicuro che lo vorrebbe anche l’artista. Poi ci
accorgiamo che si tratta di forme a lungo e armoniosamente pensate, forme
che si collocano all’esatto punto di equilibrio fra l’esattezza e la
fantasia e sono divertenti perché semplici e sono semplici perché
divertenti.
Si è scritto molto sull’atteggiamento
ludico di Poggiali. Attenzione però perché il termine «ludico» si
presta a più di un equivoco. Di solito l’artista contemporaneo
«gioca» per esorcizzare la drammaticità del tempo presente, l’angoscia
delle domande senza risposta. L’»ars ludens» diventa così una via d’uscita,
un alibi, un esorcismo appunto. Non mi sembra sia questo l’atteggiamento
di Poggiali nei confronti dell’universo visibile e della vita. Ho l’impressione
che per lui lo spazio sia «una voragine senza orrori» (Solmi) e il mondo
un palcoscenico per niente angoscioso dove è possibile fare «festose
capriole» (Luzi).
Guardo i mirabili dipinti dei primi anni ’80,
gli «Structural dreams», e mi convinco che per Poggiali (ma anche per
me, tale è la suggestione dell’arte) il mondo è abitato dal ritmo e
dai segni. Ma il ritmo è puro, esatto, melodioso, va cercato, capito e
rappresentato con «serena ricerca, quasi con gioia» come scriveva Pier
Carlo Santini, forse il più intelligente fra i critici dell’artista.
Quanto ai segni (germogli e labirinti,
architetture e nuvole) essi esistono per darci stupore e felicità.
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